Costruire un ambiente di lavoro che abbia attenzione per il benessere delle persone, salute mentale in primis, è la sfida del nostro tempo, e lo sarà sempre di più se guardiamo al futuro.
Lo stato di salute, fisica e mentale, dei collaboratori, ha un fortissimo impatto sulla produttività, sulle relazioni interne, e più in generale sul clima aziendale. Ambiti su cui siamo abituati a misurarci e a lavorare ogni giorno, come la gestione di malattie e assenteismo, la retention dei talenti, l’employer branding, l’engagement interno e lo sviluppo dei piani di carriera, sono sempre più impattati dal benessere psicologico delle persone.
Una recente statistica riguardante la popolazione degli Stati Uniti riporta che l’80% degli americani arriveranno a sperimentare problematiche connesse alla salute mentale nel corso della vita.
Stare bene in azienda è un fattore sempre più importante, soprattutto per le nuove generazioni, nel valutare se restare o se cercare nuove opportunità.
Una recente ricerca sulla salute mentale a lavoro condotta da Mind Share Partners, in partnership con SAP e Qualitrics, ha evidenziato che il 20% dei collaboratori che hanno lasciato volontariamente in passato un posto di lavoro, lo ha fatto per motivi collegati alla salute mentale. Guardando alle generazioni dei millennials e dei Gen Z, la statistica sale rispettivamente al 50% e al 75%.
Il clima aziendale, l’orario flessibile, la possibilità di gestirsi in autonomia attraverso lo smart working, sono fattori che assumono sempre maggiore rilievo nel differenziare l’offerta della nostra azienda nel mercato del lavoro, e nell’assicurare l’attrattività.
Anche di fronte a pacchetti retributivi apparentemente attrattivi, garantire un ambiente di lavoro rispettoso del benessere del singolo è significativo. Uno studio dell’Università di Princeton ha evidenziato che per fasce di stipendio superiori ad una certa soglia, l’ulteriore incentivazione economica non ha quasi alcun valore nello stimolare l’entusiasmo di manager e collaboratori – il cosiddetto “emotional well-being”. Anche a livello manageriale, quindi, sono altri i fattori che entrano in gioco nella valutazione e nella scelta di un’offerta di lavoro rispetto ad un’altra.
È crescente la sensibilità dei collaboratori verso soluzioni, servizi e iniziative proposte per migliorare la conciliazione vita-lavoro, il benessere in azienda e l’accesso ai servizi.
Per le aziende, si rende sempre più necessario differenziarsi nel mercato e rimanere attrattive nei confronti di talenti e professionisti, creando e sviluppando piani di welfare aziendale che favoriscano engagement e benessere.
La promozione di un clima di lavoro piacevole e l’incentivazione della work-life balance sono il risultato di attività in molteplici ambiti di intervento e applicazione a livello di welfare. Dalla scuola alle spese di famiglia, ai trasporti, alla non autosufficienza, ai beni e servizi per favorire lo svago, alla cultura e al tempo libero.
Tuttavia, sono ancora poche le aziende che introducono nel sistema di welfare aziendale iniziative specifiche rivolte alla prevenzione ed alla salute mentale. Parlare di benessere psicologico in azienda è ancora visto con sospetto e diffidenza, nella maggioranza dei casi.
Abbiamo l’impressione che parlarne e offrire servizi dedicati in azienda, possa significare aprire il vaso di Pandora verso disagi lavorativi, gestionali e organizzativi, latenti all’interno della nostra organizzazione.
I numeri, l’evidenza e le scelte lavorative delle persone, ci stanno dimostrando che è giunto il tempo di affrontare questi temi.
Un aspetto interessante, riscontrato da Mind Share Partners nel corso delle interviste alla base della recente ricerca, è che, per le nuove generazioni, parlare e confrontarsi sui temi del benessere psicologico è considerata una cosa normale.
Andare dallo psicologo è un’abitudine molto diffusa, anche a livello di prevenzione. Ci vado prima di stare male, ci vado anche quando sto bene – per un confronto, per schiarirmi le idee, per essere accompagnato da un professionista esterno.
Entrando in azienda, i giovani si aspettano di trovare la stessa attenzione ed apertura. Ma nella maggior parte dei casi non è così. In azienda trovano una cultura manageriale workaholic e poco attenta all’equilibrio individuale nel suo complesso.
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Lo sforzo che dobbiamo fare tutti insieme, è quello di rompere lo stigma. Parlare, creare consapevolezza e conoscenza riguardo all’importanza dell’equilibrio individuale e di gruppo. Cambiare approccio, essere più aperti, imparare dai più giovani.
Siamo abituati a collegare il disagio psicologico con situazioni lontane dalla nostra quotidianità lavorativa. Eppure oltre due terzi delle persone non condivide con i colleghi il reale stato di salute mentale. Un recente dato divulgato da Deloitte: il 95% dei collaboratori che hanno chiesto di assentarsi dal lavoro per motivi di stress, ha utilizzato motivazioni diverse, ad esempio mal di testa o mal di stomaco.
Pensando alla diffusione degli episodi di burnout professionale, ed alla recente risoluzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che definisce il burnout una sindrome legata e correlata al contesto organizzativo del lavoro, non possiamo restare indifferenti e pensare che come HR questi eventi non ci riguardino. Più che un tema medico, l’OMS lo definisce un “occupational phenomenon” – non una malattia, dunque, ma un disagio che nasce e si alimenta nel posto di lavoro.
Se un collega arriva ad ammalarsi per lavoro, abbiamo perso tutti. Come HR, abbiamo perso due volte: non abbiamo saputo gestire la situazione in anticipo, nè creare una cultura aperta alla consapevolezza, all’attenzione ed alla cura per il benessere fisico e psicologico.
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