La prima impressione (non) è sempre quella che conta. Anche nel lavoro.

“Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione” (Oscar Wilde).

Credo che questo sia uno degli aforismi più citati quando si parla di prima impressione e colloqui di lavoro. Oltre a farci riflettere su qualcosa che abbiamo sperimentato in diverse occasioni (formali e non), fa sorgere un interrogativo: quanto è davvero importante fare una buona prima impressione? E’ davvero così determinante?

Sembrerebbe di si. Le prime impressioni servono fisiologicamente per comprendere, categorizzare e di conseguenza affrontare e dare senso al mondo. 

La ricerca sulla prima impressione

Le prime impressioni si formano inconsciamente e in meno di 40 millisecondi, come dimostrano gli studi di Alexander Todorov, Professore dell’Università di Princeton.

Il ricercatore, per più di una decade, si è concentrato a studiare come si formano le prime impressioni. In particolar modo a partire dall’analisi del viso che tutti noi inconsciamente mettiamo in atto quando incontriamo per la prima volta qualcuno.

Bastano pochi tratti somatici per formare un’impressione e determinare di conseguenza le nostre reazioni.

Essere quindi consapevoli che i pregiudizi e i bias cognitivi (errori di valutazione che compiamo quotidianamente sulla base, appunto, dell’interpretazione errata di determinati segnali) originano non solo dall’etnia, colore della pelle, sesso, aiuta a fermarsi e “fare un passo indietro” ogni qualvolta pensiamo di aver davvero compreso qualcuno.

Come si formano le prime impressioni?

Il cervello umano è “addestrato” ad economizzare e a prendere decisioni nel minor tempo possibile, retaggio di un periodo in cui leggere correttamente gli stimoli esterni equivaleva a sopravvivere o a soccombere.

Nel mondo di oggi e nel contesto attuale, quando incontriamo qualcuno – che sia in un contesto formale o informale – tendiamo a valutarlo sulla base della famigerata prima impressione, che si forma a partire dall’aspetto fisico e dai pregiudizi da cui nessuno è immune.

Alexander Todorov ci fa notare come basti un decimo di secondo per giudicare da un viso se la persona a cui appartiene sia, ad esempio, affidabile o addirittura competente. 

Il problema, dunque, nasce dal fatto che da una prima impressione simultanea, tendiamo a costruire un’intera narrazione rispetto a chi ci sta di fronte, arrivando quasi a pensare di conoscerla e non sempre siamo nel giusto.

Sembrerebbe dunque che siamo condannati a subire la prima impressione del nostro interlocutore e giocarci un possibile posto di lavoro solo dalla forma del nostro naso o delle sopracciglia.

Naturalmente, per fortuna, non sono solo questi elementi che entrano nell’interazione. Sebbene, come abbiamo detto, una prima impressione si formi in pochi istanti, possiamo cercare di controllare e in qualche modo “guidare” gli altri aspetti sui quali abbiamo più spazio di manovra.

Elementi controllabili per controbilanciare la prima impressione.

Il nostro modo di porci, verbale e non, il nostro modo di vestirci, il nostro aspetto nel complesso trasmettono al nostro interlocutore molte informazioni, su di noi e sui gruppi sociali ai quali apparteniamo o vorremmo appartenere.

Un altro “motto” piuttosto famoso, infatti, recita: “Se vuoi diventare un milionario, comportati come un milionario”. Ma anche “Come sei vestito, così sei trattato”. Sembrano banalità, o consigli della nonna, ma contengono importanti verità psicologiche.

Ogni contesto (e quindi, ogni azienda e settore) condivide codici non solo di comportamento, ma anche di “abbigliamento”. Per poter quindi essere considerato un potenziale membro del gruppo, è imprescindibile trasmettere l’idea che non solo conosciamo, ma condividiamo questi codici di comportamento.

Un settore che richiede un abbigliamento informale, tenderà a giudicare poco in linea un candidato che si presenta a colloquio “ingessato” in un completo giacca e cravatta.

E’ un pregiudizio, questo, certamente, e potrebbe farci arrabbiare, farci chiedere: cosa c’entra il mio abbigliamento con le mie competenze?

Niente!

Origini del pregiudizio

Ma questo pregiudizio inconscio e involontario parte alla lontana: il nostro salto evolutivo non risale a più di 15.000 anni fa, uno spazio troppo breve per poter modificare profondamente la nostra struttura cerebrale.

Se pensiamo che l’essere umano si è evoluto a partire da piccole tribù, i cui membri erano persone di cui si conosceva quasi ogni aspetto. Solo con il boom industriale del primo Novecento ha conosciuto per la prima volta una realtà cittadina come la intendiamo ai giorni nostri,  appare forse più chiaro perchè il “senso di appartenenza” risulta un elemento imprescindibile nel formare una prima impressione, anche e soprattutto ad un colloquio.

Il mio interlocutore, infatti, deve in pochi minuti discriminare molte informazioni, e la mia competenza è solo una di queste.

Non stupisce, letta da questa prospettiva, la diffusione della fisiognomica a cavallo tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. 

Come ci siamo detti è il periodo delle grandi migrazioni industriali, quando le persone davvero iniziano a dover convivere in gruppi estesi e poco familiari. Diventa essenziale, come ai giorni nostri, capire in poco tempo, con chi si ha a che fare.

La fisiognomica prometteva una facile soluzione ad un dilemma cognitivo. Da pochi elementi (l’aspetto fisico) avremmo dedotto le caratteristiche principali di questo sconosciuto con cui avremmo dovuto per forza di cose avere a che fare.

Non tutto è perduto

Paradossalmente, durante un colloquio o un primo incontro, si attiva un meccanismo simile alla fisiognomica: per dedurre, comprendere, capire chi ho davanti, devo mettere insieme molte informazioni in tempo breve.

Ecco perchè informarsi, cercare di capire/dedurre con chi si avrà a che fare è il punto di partenza essenziale per poter controbilanciare una prima impressione che potrebbe penalizzarci.

Oltre a conoscere o dedurre le regole implicite o esplicite (aziende strutturate inviano ai candidati “istruzioni chiare” su come si svolgerà il colloquio e la selezione), impariamo ad apprendere il linguaggio del nostro interlocutore e ad utilizzarlo per fargli capire che letteralmente parliamo la stessa lingua.

Quante volte, anche leggendo semplicemente un annuncio, abbiamo imparato che un commesso era in realtà e per quella realtà un “sales assistant”? 

Tornando alla nostra domanda di apertura, si, è importante fare una buona prima impressione.

Ma niente paura: gli esseri umani possono modificare la loro prima impressione! In genere i professionisti delle risorse umane dovrebbero essere sufficientemente capaci da tenere in considerazione tutti gli elementi in gioco, compresa ovviamente la nostra competenza.

Prepararsi ad un colloquio significa anche tutto questo: informarsi, comprendere, adattarsi e credere in noi stessi. E soprattutto nella capacità che abbiamo di parlare di noi anche senza proferir parola.

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Bibliografia

Alexander Todorov, Face Value: The Irresistible Influence of First Impressions – Princeton University Press.

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