Secondo la IASP (International Association for the Study of Pain) il dolore cronico viene definito come “un’esperienza sensoriale o emozionale spiacevole associata ad un reale o potenziale danno tissutale, o descritta in termini di tale danno”.
Patologie come cefalea, fibromialgia, endometriosi, sindrome da fatica cronica o del colon irritabile influenzano particolarmente la nostra qualità di vita, incidendo a livello affettivo, personale e lavorativo.
In questo articolo vedremo quali sono le peculiarità che caratterizzano il dolore cronico e quali strategie possono essere impiegate per migliorarne la gestione.
Questa frase è stata formulata da Vilayanur Ramachandran, neuroscienziato indiano conosciuto per i suoi studi sull’arto fantasma.
Egli sottolinea come non esista un dolore più o meno grave, invalidante o intenso, ma come sia il nostro modo di leggere l’esperienza ad incidere sulla percezione del dolore.
Questa lettura parte proprio dal cervello. Un insieme di informazioni neuro-chimiche, di processi cognitivi (i pensieri) e lo stato affettivo (emozioni) fanno sì che il dolore venga vissuto da ciascuno di noi in maniera diversa. E di conseguenza che abbia effetti diversi sulla nostra qualità di vita.
Pertanto, maggiore intensità non corrisponde a maggiore dolore. Piuttosto dobbiamo chiederci come i nostri pensieri e le nostre emozioni incidano nel farci avvertire più o meno dolore.
Inoltre, ormai è risaputo come gli aspetti psicologici influiscono a livello cerebrale. La comune espressione “lo stress fa male” può essere tradotta in termini neurobiologici come l’effetto negativo del cortisolo a livello cerebrale. Il cortisolo è un ormone che varia nel corso della giornata. Se viene prodotto in eccesso può provocare uno stress cronico, portando a delle conseguenze a carico di più sistemi (immunitario, cardiovascolare, nervoso e endocrino).
Ansia, depressione e stress sono tra i primi fattori che influiscono sulla percezione del dolore, motivo per il quale è importante lavorare su tali aspetti, al fine di promuovere una migliore qualità di vita.
Un interessante studio di Kross e colleghi del 2011 ha evidenziato come vengano attivate le stesse aree cerebrali di fronte a un dolore fisico e ad un dolore di tipo sociale, che nella ricerca veniva misurato attraverso l’esposizione dei soggetti a delle fotografie degli ex fidanzati.
Ciò va nuovamente ad evidenziare come il cervello giochi un ruolo fondamentale nella lettura del dolore. Quando diciamo “ho mal di schiena” non dovremmo focalizzarci solamente sull’intensa sensazione che percepiamo a livello lombare, ma anche chiederci come il nostro cervello sta processando questa informazione che ci viene trasmessa al sistema nervoso centrale.
Tale sensazione produrrà in noi delle emozioni e dei pensieri e saranno proprio queste due componenti a farci percepire il dolore come più o meno impattante nella nostra quotidianità.
L’intento di questo articolo non è quello di comunicare che il dolore è tutto nella nostra testa!
Ci sono dolori cronici che sono particolarmente invalidanti e modificano drasticamente la nostra qualità di vita, come ad esempio il dolore dovuto ad una patologia oncologica.
Ciò che voglio trasmettere è come noi stessi possiamo diventare parte attiva nel cercare di affrontare e di convivere con il dolore, di qualsiasi natura esso sia.
E’ ciò che in psicologia viene chiamata autoefficacia, concetto formulato da Bandura per indicare la capacità che ciascuno di noi percepisce nel gestire determinate situazioni di vita. Ha a che fare con le competenze che ci attribuiamo e permette di prevenire il senso di impotenza e i pensieri di tipo catastrofico.
Vediamo quindi nel concreto come possiamo “agire” sul nostro cervello per modificare e padroneggiare il dolore percepito.
La maggior parte delle strategie presentate prendono ispirazione dall’ACT (Acceptance and Commitment Therapy, Hayes 2004). Tale modello di psicoterapia cognitivo comportamentale di terza generazione individua nella capacità di accettazione della sofferenza la modalità migliore per fronteggiare il malessere, piuttosto che cercare di scacciarlo e di conseguenza amplificarlo.
Numerosi studi hanno evidenziato il legame tra dolore cronico e l’alessitimia, costrutto usato per identificare l’analfabetismo emotivo, ossia l’incapacità di identificare e descrivere a parole l’emozione esperita da se stessi o dagli altri. Imparare a riconoscere e validarsi lo stato emotivo ci permette di sentirci meno soverchiati da esso. E’ ciò che ci viene insegnato fin da bambini, nominare la paura, la rabbia, la tristezza aiuta a depotenziarne l’effetto negativo e a normalizzare ed affrontare l’emozione. A ciò consegue un minor rischio di andare incontro ad uno stato di ansia e depressione che, come abbiamo visto, amplificano la percezione di dolore.
“Non pensarci”, “Sei esagerato”, “Basta che ti distrai”: quante volte una persona che soffre di dolore cronico si sarà sentito dire o si sarà detto lui stesso queste parole? Vero, cercare di distrarsi e mantenersi mentalmente impegnati su altro possono essere delle ottime strategie, ma non sempre sono applicabili. Se adesso io ti dico “Non pensare ad una giraffa viola”, sicuramente tu avrai in mente l’immagine della giraffa.
E’ ciò che in psicologia chiamiamo defusione cognitiva. Possiamo imparare ad osservare i nostri pensieri, vivendoli in terza persona e considerandoli come solo prodotti della nostra testa: anziché dirsi “basta pensare al dolore” posso notare che in questo momento “la mia mente mi sta dicendo che sto provando dolore”.
Immaginiamo un monaco che sta cercando di meditare in un luogo silenzioso. Improvvisamente nella stanza entra una mosca: il monaco, focalizzandosi sull’insetto viene continuamente infastidito dal ronzio, non riuscendo più a proseguire nella meditazione. Ciò che noi possiamo fare per fronteggiare il nostro dolore, è accettarlo come parte della nostra vita, esattamente come la mosca fa parte della stanza. Tanto più cerchiamo di scacciarlo, più diventerà invalidante. Trasformandolo, invece, in qualcosa che fa parte dell’insieme, al quale posso decidere se prestare o meno attenzione, mi permetterà di gestirlo in maniera più efficace e funzionale (torniamo al concetto di autoefficacia). Posso imparare ad occuparmi del mio dolore semplicemente osservandolo e non giudicandolo, principio fondamentale delle pratiche di mindfulness. Nel momento in cui si presenta il dolore posso provare a focalizzarmi su esso e a descriverlo (è caldo o freddo? Acuto o persistente? Leggero o pensante? Fluido o statico?) e a notare quali sensazioni somatiche e affettive mi provoca tale esercizio.
Le strategie fornite finora possono costituire un valido aiuto, ma in alcuni casi può essere necessario rivolgersi ad uno specialista. Come ogni patologia o accadimento di vita, il dolore cronico può andare ad esacerbare una condizione di malessere, che sia essa totalmente legata alla malattia o preesistente. La letteratura mostra l’utilità di interventi psicoeducativi, ossia di interventi che mirano ad aumentare la capacità emotiva dei pazienti di fronteggiare la malattia e le loro conoscenze nei confronti della malattia e della terapia. Trattamenti non farmacologici come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e le tecniche di rilassamento sono inseriti tra le linee guida internazionali per il trattamento del dolore cronico. La CBT permette di offrire uno spazio dedicato all’espressione e all’ascolto della sofferenza fisica ed emotiva del paziente, nel quale riconoscere i fattori cognitivi e comportamentali che possono provocare la comparsa del dolore o il suo peggioramento. Le tecniche di rilassamento, invece, oltre a modificazioni a livello neurocerebrale, determinano una diminuzione dell’ansia, che a sua volta può aumentare la tolleranza del dolore.
Dahl J. (2014), Oltre il dolore cronico. Vivere in modo pieno e vitale, Franco Angeli Edizioni.
Harris R. (2010), La trappola della felicità. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere felici, Erickson Editore.
Kross E., Berman M.G., Mischel W., Smith E.E., Wager T.D. (2011), Social rejection shares somatosensory representations with physical pain, Proceedings of the National Academy of Sciences.
Nigol SH, Di Benedetto M. (2019), The relationship between mindfulness facets, depression, pain severity and pain interference. Psychol Health Med. May 24:1-11.
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