Essere donna nel 2020 e lavorare in azienda dovrebbe essere come essere uomo nel 2020 e lavorare in azienda. Eppure non è così. Non è così a partire dalle nove donne in riunione con il collega a cui ci si appella al maschile generico, seppure il genere femminile componga il 90% del team, non è così per la donna lavoratrice e mamma che fatica a trovare un equilibrio tra lavoro e famiglia e si ritrova a dover rinunciare al tempo per sé, non è così per la donna dirigente che guadagna 6 mila euro l’anno in meno del collega uomo (Gender Gap Report 2020). E non è di certo così per il milione e 404 mila donne tra i 15 e i 65 anni che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro (ISTAT 2018).
Il gender gap è figlio di una cultura non inclusiva, che fa della questione di genere una non questione. Ecco perché è necessario sensibilizzare, informando e formando sul tema tutta la popolazione aziendale. La strada da percorrere è quella di far comprendere il problema a chi il problema non lo percepisce e solo successivamente agire per mitigarlo.
Il sessismo è un linguaggio, un atteggiamento e una modalità di pensiero che può essere disappresa insegnando modalità diverse, che possano tradursi in comportamenti concreti di rispetto, inclusione e parità, sempre attraverso la comprensione e l’integrazione delle differenze.
Il sessismo è un linguaggio e proprio per questo parte dalle parole: da battute, terminologie, e omissioni che a loro volta danno vita a stereotipi e pregiudizi di genere.
La matrice culturale e linguistica della questione è dunque evidente. Una matrice che pone le basi al gap salariale, al soffitto di cristallo, alle molestie, allo stalking, fino ad arrivare alla violenza. Certo, linguaggio sessista e stereotipi sono condizioni necessarie ma non sufficienti per comportamenti violenti, eppure ne rappresentano pur sempre la base. Ecco perché è necessario partire dal linguaggio per affrontare la questione di genere. Come quasi sempre accade, infatti, non è possibile risolvere un problema se non agendo alla sua fonte.
Il linguaggio struttura il modo che abbiamo di vedere il mondo e se le parole che si utilizzano in azienda non prevedono, ad esempio, il femminile, l’organizzazione avrà difficoltà a vedere, riconoscere e valorizzare le donne. Il linguaggio struttura talmente tanto il pensiero che quest’ultimo, senza parole, nemmeno esiste. Il pensiero, a sua volta, dà vita ai comportamenti. Da qui, la necessità di ristrutturare il linguaggio per ristrutturare i comportamenti, passando, appunto, dai pensieri e dalle rappresentazioni che si hanno del femminile.
Wittgenstein, filosofo che studiò a fondo il linguaggio, disse: “I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo”. Ecco allora che diventa fondamentale varcare quei limiti e ampliarli, a partire proprio dalla comunicazione, da ciò che si scrive nelle email e da ciò che si dice nelle riunioni, fino ad arrivare alla comunicazione con l’esterno e i diversi stakeholders. Così come il linguaggio può ferire, può e deve, infatti, educare.
Educare a una cultura organizzativa inclusiva, dove non ci sia spazio per molestie e violenze nei luoghi di lavoro, dove le donne si sentano valorizzate e non discriminate, dove la leadership sia leadership, ma il femminile possa esprimersi, dove allungare la mano, ammiccare, approcciare, siano comportamenti stigmatizzati e non dimostrazioni di stima.
Cosa succede quando in azienda il linguaggio si traduce in comportamenti inopportuni, sfociando nelle molestie?
Le molestie sono infatti comportamenti indesiderati a connotazione sessuale non solo di tipo fisico, ma anche verbale. Offendono la persona e contribuiscono altresì a lederne l’immagine personale, inficiando il suo lavoro e la sua salute.
Le molestie enfatizzano l’immagine della donna come oggetto, mettendo in secondo piano il suo ruolo aziendale e il suo essere collega, collaboratrice o capa. Sono parole e comportamenti, spesso difficili da riconoscere proprio per le ragioni culturali e linguistiche alla base della questione di genere.
Sono molestie tutte le avances e i contatti fisici non desiderati, certo, ma lo sono anche i doppi sensi offensivi, gli apprezzamenti allusivi, i commenti fuori luogo sul corpo o sull’aspetto.
Quando si sensibilizza e si fa formazione in azienda su questi temi, spesso le persone chiedono: ma come distinguere le molestie dai semplici complimenti o da un sincero corteggiamento? Domanda che mette in luce quanto la questione di genere vada affrontata anche, e soprattutto, nei luoghi di lavoro. Il corteggiamento è tale quando viene accettato e in qualche modo condiviso: il corteggiamento è paritario, la molestia si basa invece su un disequilibrio di forze e potere. Un no è un no: la molestia c’è quando il no si travalica e si genera imbarazzo e disagio.
Il 25 novembre le aziende hanno l’occasione di promuovere iniziative di sensibilizzazione che non si riducano a un’informativa o a fiocchi rossi appuntati alle camicie; iniziative che possano smuovere le persone, andando a toccare la matrice culturale e linguistica. La condivisione di video a forte impatto emotivo o brevi eventi formativi diffusi possono essere i primi passi per lanciare la tematica e cominciare a favorire il dialogo e il confronto.
Così come la violenza comincia con una parola, così il viaggio verso una cultura di genere inclusiva comincia da un passo. Un passo dopo l’altro si può passare a piani di comunicazione ad hoc, percorsi formativi, azioni organizzative di Diversity&Inclusion e people care, servizi di ascolto.
Sta alle e agli HR e a chi si occupa di comunicazione interna raccogliere questa sfida, entrando in sinergia e collaborando per una trasformazione culturale che possa rendere l’azienda un luogo che accoglie, rispetta e riconosce. Un luogo dove le battute sessiste, i comportamenti inopportuni, le molestie vengono scoraggiate dal basso, dalle singole persone che ogni giorno si impegnano per rendere il proprio luogo di lavoro un luogo in cui chiunque, a prescindere dal proprio genere di appartenenza, possa sentirsi sicura e sicuro, riconosciuta e riconosciuto. Perché intervenire sul gender gap, sul sessismo e sulla violenza fa certamente bene alle donne, ma fa bene anche agli uomini.
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