Nonostante il burnout sia stato riconosciuto come un problema presente nel luogo di lavoro (l’OMS definisce il burnout “una sindrome concettualizzata come conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo”), in azienda non sempre viene considerato un problema da affrontare seriamente.
Per varie motivazioni, spesso, il burnout viene minimizzato come se fosse una parte inevitabile ma pur sempre gestibile della vita lavorativa.
Nel libro “Burnout e organizzazione” gli autori C. Maslach e M. P. Leiter hanno riportato quanto espresso dai manager restii ad affrontare il burnout durante le loro ricerche all’interno di diverse realtà aziendali.
Tali manager temono spesso che una volta riconosciuto il burnout in azienda verranno travolti dalle richieste da parte dei dipendenti per ridurre i carichi di lavoro o per avviare programmi di “qualità della vita lavorativa”. Non pensano assolutamente che il burnout possa essere responsabilità del datore di lavoro. Ma in ogni caso non sono convinti di avere il potere di fare qualcosa anche nel caso disponessero di denaro, tempo e competenza per dedicarsi al problema.
La tipica reazione nei confronti del burnout è quella di incolpare la persona. Se i dipendenti si sentono “logorati” sono loro ad avere il problema. Forse hanno un atteggiamento sbagliato nei confronti della propria mansione, un approccio lamentoso. Magari non sono sufficientemente bravi o efficaci nello svolgere il proprio lavoro. In ogni caso resta comunque un problema dell’individuo che dovrà trovare delle soluzioni personali. Le alternative per risolvere il tutto sono fondamentalmente tre: riposare, richiedere aiuto ad uno specialista o rassegnare le dimissioni.
Se si pensa che il burnout sia un problema dell’individuo, allora non può essere un problema dell’organizzazione. Non è pertanto responsabilità del datore di lavoro cercare il modo per adattare il lavoro a ciascun dipendente. Partendo da questo presupposto, il burnout diverrà mai un problema organizzativo? Sicuramente si ma solo nel caso esso comporti una forte perdita economica. L’organizzazione, in conseguenza di ciò, si sente tenuta a fare qualcosa soltanto dopo che un problema si è manifestato, non prima. Si investono risorse economiche solo quando è strettamente necessario, non prima.
Anche se i singoli dipendenti sono colpiti da burnout, ciò non è allarmente nell’organizzazione. Perché l’organizzazione non vede come esso possa incidere sulla sua dimensione economica. I dipendenti in ogni caso continuano ad esserci e a svolgere il proprio lavoro. La sindrome del burnout non viola le leggi pertanto l’organizzazione non rischia l’esposizione a ipotetiche cause legali.
Secondo questo punto di vista, il meglio che le organizzazioni possono fare consiste semplicemente nel permettere alle persone di prendersi cura di loro: riposi, sedute psicologiche, workshop informativi sul benessere etc… In questo approccio di tipo paternalistico vi è un messaggio implicito, ossia: “se non siete in grado di prendervi cura di voi stessi, l’organizzazione potrebbe solamente indicarvi la giusta direzione e vedere se poi riuscite a cavarvela da soli”. In ogni caso il messaggio implicito rimane quello che l’organizzazione è impotente.
In realtà tutte queste assunzioni sono inesatte ed estremamente pericolose per le aziende stesse. Si minimizza quello che è in effetti un problema molto serio e non ci si adopera per risolverlo. In realtà, come dimostrano tante ricerche a riguardo, il burnout incide sicuramente sull’economia dell’organizzazione. Non si tratta di un semplice problema personale ma molto di più.
Un approccio organizzativo al burnout ha ottime possibilità di realizzare un cambiamento efficace e migliorare la vita lavorativa all’interno delle aziende, ecco perché:
La prevenzione del burnout è la soluzione al problema stesso, il detto “prevenire è meglio che curare” è una certezza oggi. Infatti, una volta che il burnout diventa un problema reale nell’azienda è sicuramente costoso. Parliamo di costi economici, di produttività ridotta e di problemi di salute. Inoltre è più difficile trattare in modo efficace il burnout quando è un problema nel suo pieno sviluppo che quando lo si coglie in fase embrionale.
Questo approccio risulta vincente perché con il tempo si spende meno, prevedendo i peggiori effetti del problema. Possiamo fare tantissimi esempi ma ne cito giusto qualcuno: pagare ora un corso di formazione eviterà in seguito i costi di una scarsa prestazione con conseguente senso di inefficacia da parte della persona stessa; assumere subito una nuova persona, invece di caricare un lavoratore o una lavoratrice del doppio del lavoro, preverrà un deterioramento nella qualità del lavoro ed eviterà i costi derivanti da un possibile burnout. Creare una cultura organizzativa inclusiva e orientata alle persone preverrà atteggiamenti conflittuali e di rifiuto che potrebbero interferire con la produttività lavorativa e così via.
E’ ormai certo che un approccio preventivo costituisce un investimento saggio e prudente nel futuro dell’organizzazione. Questo si traduce nell’investire nelle persone affinché esse si sentano importanti e sicure all’interno delle organizzazioni. Questo tipo di investimento rafforzerà senz’altro l’organizzazione per la sua futura sopravvivenza.
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C. Maslach e M. P. Leiter, Burnout e organizzazione. Erickson